La carta giapponese Washi
La tipica carta giapponese chiamata Washi (da Wa: Giappone e Shi: carta) è al centro dell’attenzione oggi perché per il prossimo mese di dicembre, promossa dall’Unesco, si accinge a diventare “Patrimonio culturale immateriale dell’Umanità” .
La carta washi fu introdotta nel Seicento durante un periodo di forte influenza da parte della Cina. Originariamente veniva prodotta utilizzando asa (canapa) e kozo (della famiglia del gelso).
Con l’aumentare della richiesta di carta i produttori sentirono l’esigenza di scovare un materiale naturale che fosse diverso dal gelso e scoprirono il gampi, una pianta appartenente alla famiglia delle daphne che cresce nelle foreste sui pendii delle montagne nelle prefetture di Yamaguchi, Kochi, Shimane e Wakayama.
In questo modo dall’imitare la carta cinese si arrivò alla produzione vera e propria della carta tipicamente giapponese.
Le caratteristiche della carta washi
Questo tipo di carta, detta washi, era utilizzata fin dall’antichità all’interno delle abitazioni giapponesi per la sua capacità di riuscire a filtrare la luce riducendone l’intensità e donando di conseguenza all’ambiente una liminosità soffusa.
Le fibre del gampi di cui è fatta la carta washi sono piuttosto delicate e possiedono una naturale viscosità per questo trasformarle in carta richiede l’uso di tecniche sofisticate, ma una volta finito il prodotto risulta essere di ammirevole aspetto oltre che durevole.
La carta realizzata col gampi è forte e lucida come una perla, morbida al tatto e odorosa come il fieno, senza contare che resiste all’umidità e agli insetti dannosi. Tuttavia la produzione del washi risulta abbastanza delicata e complessa tanto che vi si dedicano ormai solo pochi e anziani artigiani, alcuni dei quali sono stati nominati “tesori nazionali viventi”.
“Oggi la carta è diventata come l’aria: la usiamo dalla mattina alla sera, ma nell’antichità era un bene prezioso. Durante il periodo Edo, dal 1603 al 1868, ogni provincia aveva la sua produzione specifica di carta e quella di qualità migliore, scelta da funzionari appositi, veniva inviata allo Shogun (il capo militare del Giappone feudale) con la massima cura al punto che la perdita o il deterioramento della preziosa merce poteva costare la vita a chi si occupava del trasporto”.
Sono le parole del maestro Nobushige Akiyama le cui opere sono esposte al Museo Nazionale di Arte Orientale di Roma fino all’11 gennaio 2015, il quale ha anche fornito una dimostrazione della laboriosa produzione tradizionale del washi.
Per la tipica carta giapponese si può ricorrere anche a fibre di bambù, canapa, riso e frumento che conferiscono caratteristiche differenti alla carta così prodotta.
Oltretutto una variante di questo materiale viene utilizzata dall’Opificio delle pietre dure di Firenze per assorbire gli strati di inquinanti sulle superfici dei quadri in fase di restauro.

Leave a Comment